lunedì 16 gennaio 2017

Così va la vita

La morte, grande o piccola che sia, è intorno a noi. Così va la vita. […] Tra le cose che Billy non poteva cambiare c’erano il passato, il presente e il futuro.
(Mattatoio n.5, Kurt Vonnegut)


«Si può compiere un massacro solo se si considerano le vittime non come individui simili a noi, ma come semplici pedine o cifre anonime nel mondo immaginario o da incubo fatto di amici e nemici, buoni e cattivi, in cui pensiamo di vivere e che perciò creiamo, oppure naturalmente se si è solo dei sempliciotti o dei sadici». Così scriveva Leonard Woolf raccontando gli anni del secondo conflitto mondiale, gli stessi che avevano preceduto la rovinosa caduta negli abissi degli inferi della sua amatissima Virginia. L’arte non è mai rimasta dietro le quinte in ciò che succedeva nella società, anzi. Se c’è una cosa che solo l’arte può fare, è raccontarla, questa umanità, senza veli, in maniera intima, in tutto il suo travagliato percorso. Non si limita ad un’analisi fredda degli eventi, ad un clinico ‘quadro della situazione’: va in profondità, a scavare nelle viscere di ogni uomo. E nessuno mai, in tutta la sua produzione letteraria, si è potuto esimere dal porsi di fronte a quella voragine oscura di crudeltà che risiede nei recessi di ogni creatura. Lo facciamo e ci interroghiamo sul perché di questa cattiveria, perché in fondo sentiamo tutti l’istinto a compiere del male, a farci del male. Ché alla fine fare del male a qualcuno che è fuori di noi, è semplicemente distruggere noi stessi. Se c’è una cosa che il Rinascimento ci ha insegnato è che ognuno di noi è prima di tutto un individuo. Ciò significa che l’unicità – l’essere vivo, strano vero?, vivo – che sentiamo ogni qual volta qualcuno ci ferisce o ci ritroviamo soli di fronte alla parte più nuda e meschina di noi stessi – che comunque ci ostiniamo a proteggere e difendere – è qualcosa che appartiene all’intero genere umano. Ed è proprio per questo che c’è qualcosa di magico, misteriosamente incantevole, nel trovarsi al mondo e essere umani. C’è qualcosa in più anche rispetto alle bestie: questo sentirsi io, parte di una collettività e allo stesso tempo intimamente singoli. «Questa combinazione di odio assoluto per la crudeltà e di intensa consapevolezza dell’individualità non è casuale. […] – continua Leonard - Per me “il nemico è la morte”, perché è la morte che distruggerà, spazzerà via, annichilerà me, la mia individualità, il mio io. Ciò che è così difficile da capire e sentire è che tutti gli altri esseri umani hanno un io molto simile, provano le stesse sensazioni di piacere e dolore, hanno la stessa spaventosa consapevolezza della morte, annientatrice di quest’unico io». Ed è forse in questo egoismo che si può ricercare – ammesso che ce ne sia uno – il senso di questo continuo correre al massacro, all’uccisione, alla distruzione. È proprio come il Marinaio di cui ci racconta Coleridge, ormai vivo-nella-morte, che ha ucciso senza nessun motivo il suo unico salvatore – l’albatross – eppure l’ha fatto. Ci portiamo tutti questo marchio di colpa fin dalla nascita, e ci sentiamo schiacciati da esso, destinati a compiere fatidicamente quel male che non vorremmo a chi più ci assomiglia e a chi più è debole nella società. Duro da accettare, ribrezzante pensarlo: ma come con orrore fu costretto a notarlo Vonnegut – uno degli artisti più umani che il mondo abbia mai visto dalla sua creazione – queste guerre che macchiano e decimano sono crociate di bambini. Non sono i pazzi – come Hitler, Mao, Mussolini – a combattere questi spietati e spaventosi macelli e a rimanerne vittime: sono giovani che si uccidono tra di loro. C’è un modo per fermarlo? C’è anche solo un modo per capire perché? Vonnegut, dando voce a degli esseri alieni e superiori, ci dice in maniera spiazzante che: no. È una caratteristica tipicamente umana – di chi è fragile – questo cercare spiegazioni o pensare di poter invertire il naturale corso delle cose. Ma, ahimè, “così va la vita”.



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