giovedì 27 agosto 2020

La vita insaziabile: un ricordo di Cesare Pavese

 «Non ho detto nulla se non quello che penso ogni volta che ripenso a lui: che mi ha fatto tanta compagnia, la migliore possibile, e gli sono grato. E che proprio come quando ti muore un amico, quel giorno, quell’anniversario, arriva sempre, di nuovo, si ripete e alla lunga non hai più molte parole, ma solo una certa commozione, e te la tieni stretta, in quanto testimonianza e ultime sembianze di quel legame.»

(Alessio Forgione)

 

La prima volta che mi sono innamorata delle parole di Cesare Pavese mi trovavo nella piccola libreria della mia città – un miracolo anche quello, a modo suo: in un paesino di cinquemila abitanti e due lettori, un posto così era per lo meno sorprendente -; ricordo di aver afferrato un libro dalla costina bianca con sopra scritto “poesie” perché in quel periodo avevo scoperto Neruda e la Dickinson e avevo realizzato che non era poi così impossibile capirli. Ho aperto a caso, come sono solita fare (il volume era onnicomprensivo) e mi sono fermata su una delle poesie rimaste fuori dal grande collettore di Lavorare stanca. Ho iniziato a leggere ed è accaduto rapidamente, senza che potessi controllarlo: le mie gambe tremavano, il respiro diventava affannoso. Quella poesia mi aveva come afferrata in qualche organo interno, costringendomi ad andare fino in fondo e attraversare un’esperienza dolorosamente viva. Le parole scorrevano come una fiumana, quasi senza punteggiatura; era come un racconto, ma ridotto all’osso; grumi di disperazione e sogni e rassegnazione e amore e vita e morte si addensavano qui e lì. Sono passati almeno cinque anni da quando è successo, e una delle cose che rimpiango di più è non aver segnato quelle pagine. Ho letto e riletto le poesie di Pavese migliaia di volte, ma non sono mai più stata in grado di ricordare cosa mi abbia colpita quel giorno. Ma forse non è poi così importante, se penso al resto: e cioè al fatto che da quel giorno Pavese è diventato una presenza costante nella mia vita, prima in maniera furtiva e poi in maniera clamorosamente esibita. Le poesie sono state la mia coperta di linus per anni; le tenevo sul comodino e giorno dopo giorno scoprivo un uomo rabbiosamente ferito, disperatamente bisognoso di amore e di vita, «insaziabile». Quell’uomo riscaldava, a modo suo, le mie fredde giornate d’inverno: lo vedevo arrancare, poi prendere lo slancio verso una specie di sogno e di barlume di speranza (a volte ho pensato lui come a un Gatsby ormai disilluso), poi inciampare per terra, ormai solo, ferito, ansimante. «E io, piegato e distrutto, me la sento pulsare d’intorno formidabile e viva, ma l’ho anelata tanto che non ho ormai più forza di levare la fronte e fissarla e comprenderla. E mi accascio in un buio dolorante rabbiosamente a torcermi» (O ballerina bruna).   




 

Pavese in realtà l’avevo conosciuto già qualche anno prima, quando la mia libraia di fiducia mi aveva messo nelle mani una copia vecchissima di La casa in collina senza darmi troppo modo di rifiutarmi. Quel libro l’ho iniziato controvoglia, sperando di terminarlo presto, e infatti non ho capito molto: ricordo la lentezza delle frasi, le Langhe, la solitudine e la malinconia di Corrado, la bellezza partigiana di Cate e poco altro. Non l’ho più riletto, come dice Alessio Forgione nel suo articolo. E infatti da lì non avevo mai più voluto leggere i romanzi di Pavese, credendo che non facessero per me. Poi un giorno ho scoperto un piccolo libriccino, Paesi tuoi: papà è andato a comprarlo in una libreria sperduta di un paese vicino; era Natale e l’ho letto davanti al fuoco. Era una storia rabbiosa, come quelle poesie in cui Pavese aveva vomitato il rancore del fallimento. C’era Gisella, questa ragazza bellissima che sembrava racchiudere in sé tutto il senso della purezza e della carne, e a un certo punto di lei il protagonista dice una cosa che mi era parsa di una tenerezza atavica: «allora mi viene vicino stretta, per farsi abbracciare, e mi guardava fisso come se la sua faccia non fosse la sua e volesse vedere come facevo a baciargliela». Ma in quel libro c’è anche la morte, il sacrificio, il destino che si compie e spazza via qualsiasi cosa; c’è la terra, coi suoi ritmi e con il fuoco. E quando si arriva alla fine sembra di aver assistito al compiersi inesorabile di un mito, di una storia ancestrale che racconta degli uomini tutto quello che c’è da sapere.

 


Ho combattuto per molti anni contro questo famoso 27 agosto; non volevo rassegnarmi a quel gesto che reputavo insensato, vigliacco. Per anni ho ripercorso lettere, pagine di diario, poesie, cercando di scoprire quando è stato che qualcosa si è rotto inderogabilmente. Forse credevo che scoprirlo mi avrebbe fatto soffrire di meno, o forse speravo di poterlo aggiustare in qualche modo. Nella mia mente da ragazza diciottenne non avrei mai voluto che Pavese se ne andasse. Non riuscivo ad arrendermi al pensiero che avesse mollato la presa, perché avevo sentito anche io, nitidamente, tutto quel dolore stanco e strascicato che emerge nelle pagine di diario, e forse inconsciamente non volevo che anche per me fosse quella la fine ultima e necessaria. Ma Pavese quel vizio assurdo lo provava da quando aveva diciotto anni, e già da molto tempo aveva scritto la sua apologia – «Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi?». Era convinto che ciascuno di noi avesse un destino, e il suo martellava come una tentazione affascinante e terrificante fin dal principio. Nelle carte precedenti al suicidio c’è la paura, dei tentativi di auto-convincimento; il dolore che invade come una fiumana, corpi che affogando tentano di mettersi in salvo; c’è Constance, la donna a cui per troppi anni, erroneamente, è stata imputata la fine di Pavese. E poi quattro frasi, laconiche, dolorose: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Quel gesto è esistito, e ormai ho capito che c’è poco da girarci attorno. È esistito perché Pavese lo ha voluto, perché in quel modo ha compiuto il suo destino. Si era preparato da anni ad affrontare la morte: la vedeva negli occhi di Constance e in tutti gli altri rapporti amorosi (aveva scritto a Bianca Garufi: «sei la terra e la morte»). E infine, quel 27 agosto, aveva raggiunto il punto discendente della propria parabola vitale. Quel giorno non c’era nessuno in città: non c’era Natalia, non c’era Calvino. Pavese moriva silenziosamente, nella solitudine che lo aveva seguito sempre come un’ombra. Aveva lasciato il suo testamento sul tavolo - i Dialoghi con Leucò – e sulla prima pagina un messaggio ridotto all’osso che invocava discrezione. 

 

Sono passati 70 anni, 6 da quando l’ho conosciuto, eppure questo giorno mi porta sempre una sensazione di fastidio allo stomaco. Credo sia una sorta di nostalgia inconcludente, il desiderio frustrato di un qualche rapporto – uno qualunque – con un uomo che è diventato mio amico senza che l’abbia mai conosciuto davvero. Pavese mi ha regalato le parole per dare un nome a un mucchio di cose: la brama di vivere, la rassegnazione della perdita, il senso della casa, della terra; l’ansia febbrile di qualcosa che inizia, la desolazione cinerea di qualcosa che finisce. E oggi non riesco a pensare a quella stanza dell’Hotel Roma, a quello che è accaduto prima, alla sensazione che ha provato durante; preferisco immaginarlo mentre percorre incappucciato le vie di Torino, tutto torvo, ripiegato su se stesso, impegnato a rigirare nella mente un pensiero ossessivo. Così, l’ho ritrovato, un giorno, per caso, nelle righe di un libro di Natalia Ginzburg, la donna a cui sarò per sempre debitrice per avermi regalato il più bel Ritratto di un amico

 

L’amico misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all’improvviso con mossa fulminea. […] Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo – la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava. Umiliati, noi ci chiedevamo se la nostra compagnia l’aveva deluso, se aveva cercato accanto a noi di rasserenarsi e non c’era riuscito; o se invece si era proposto, semplicemente, di passare una serata in silenzio sotto una lampada che non fosse la sua. […] È morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. […] Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero.

sabato 1 febbraio 2020

Tra quotidiano e assoluto: presenze femminili nella lirica montaliana

Quando Eugenio Montale fa la conoscenza di Irma Brandeis ha poco più di trent’anni. E’ già uno scrittore affermato e dirige la più importante istituzione culturale italiana: Il Gabbinetto Viesseux. Irma, dal canto suo, è una dantista appassionata ed un’insegnante di letteratura a New York. I due si incontrano in estate: lei ha letto Ossi di Seppia da poco e ne è rimasta affascinata; lui non può che rimanere colpito dalla sua intelligenza. Nasce, ovviamente, una storia d’amore. Tuttavia non durerà per molto: è il 1938 quando Benito Mussolini annuncia la promulgazione delle leggi razziali. Irma, che ha origini ebree, si trova costretta a fuggire. Montale non la segue. Del resto non potrebbe neanche: nella sua vita c’è un’altra donna, la compagna della vita – Drusilla. Si tratta della donna che anni dopo sposerà, la destinataria della commovente Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale. Sembrerebbe, quindi, tutto finito. Ovviamente non lo è, come in tutte le storie che meritano di essere raccontate.

Irma Brandeis
E’ una costante della letteratura – italiana e non – che le donne, nel momento in cui sono irraggiungibili nella vita reale, diventino ispiratrici in poesia. Sarà proprio questa la sorte di Irma, che diventerà una costante interlocutrice nelle successive raccolte poetiche montaliane - Le Occasioni e La bufera e altro. Siamo, ormai, nel periodo di una catastrofe mondiale. La guerra si abbatte su tutto ciò che è vita e lo distrugge; la cultura sembra essere soffocata da un “messo infernale”; la resistenza inizia a cedere. C’è bisogno di un appiglio a cui tenersi stretti per sopravvivere, per mantenere ancora acceso quel “tenue bagliore” di una fede che sta combattendo una lotta interstiziale. E’ per questo che sin dall’inizio de Le Occasioni si palesa una sorta di presenza angelica, perfettamente in linea a quella che appare una apocalissi contemporanea:

Ti libero la fronte dai ghiaccioli / che raccogliesti traversando l’alte /nebulose; hai le penne lacerate /dai cicloni, ti desti a soprassalti.
(Ti libero la fronte dai ghiaccioli, Le Occasioni)

Si tratta dell’ombra di colei che solo qualche anno dopo diventerà donna cristofora: Clizia. A questa altezza cronologica è ancora solo e soltanto un ibrido tra donna e angelo (in perfetta continuità stilnovistica): ambasciatrice di una salvezza privata, pronta a sottrarre alla “follia di morte” chi vi si affida:
resiste / e vince il premio della solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine opporre i tuoi /occhi d’acciaio.
(Nuove Stanze, Le Occasioni)

E’ queste presenza che Montale invoca di continuo, tra sconforti e barbagli di speranza. Quando si palesa ha il senso di una folgore, di un’apparizione epifanica - non a caso la raccolta si intitola “Le Occasioni”.
Tuttavia il nome di Clizia compare solo nella raccolta successiva, all’interno della poesia che apertamente dichiara chi è l’Avversario: si tratta di La Primavera Hitleriana

Tutto per nulla, dunque? – e le candele romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii /forti come un battesimo nella lugubre attesa dell’orda  […] Oh la piagata primavera è pur festa se raggela /in morte questa morte! Guarda ancora/ in alto, Clizia, è la tua sorte, tu / che il non mutato amor mutata serbi,/ fino a che il cieco sole che in te porti /si abbàcini nell’Altro e si distrugga / in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi / che salutano i mostri nella sera /
della loro tregenda, si confondono già /col suono che slegato dal cielo, scende, vince / – col respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio, ai greti arsi del sud... 


Siamo a Firenze, è il 9 maggio del 1938 e Hitler sta sorvolando la città. Quella che è sempre apparsa come una cittadella intellettuale sembra ora essere minacciata dal più terribile dei mali storici. Il paesaggio è spettrale: tutto si è improvvisamente mutato in un gelido inverno innevato. E’ a questo punto che Clizia fa il suo ingresso, accogliendo quello che sembra essere il suo destino: proprio come Cristo, infatti, ha il compito di abbacinarsi nell’Altro (Dio, appunto) per tutti. Non più una salvezza privata, dunque, ma collettiva.


Mosca e Montale
Questa Beatrice contemporanea dagli occhi d’acciaio si trova all’estremo opposto della donna che nominavamo in apertura: Drusilla. Montale la chiamava affettuosamente Mosca, a causa della sua forte miopia - un dettaglio non trascurabile se confrontato a quegli occhi d’acciaio a cui accennavamo prima. Non si tratta certamente di una donna cristofora, dunque: piuttosto, è la portatrice di una saggezza quotidiana e minimale. E’ guida per il poeta nel momento in cui ormai la guerra è solo un ricordo lontano e tutto sembra essere diventato un’unica valanga di sterco. Ci troviamo, infatti, nel tempo dell’ “ossimoro permanente”, dove bene e male appaiono indissolubilmente legati. In questo nuovo presente Montale non riesce a orientarsi più, sballottato com’è tra le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede. Ed è per questo che gli è necessario un punto di riferimento, un braccio a cui appoggiarsi per scendere la lunga scalinata della vita che ha di fronte. Ha bisogno di quel che coraggio che fu il primo dei tuoi prestiti e di quella capacità di vivere negli interstizi che era propria solo e soltanto di Mosca.

Ma Drusilla, a un certo punto, muore. Ed è da questa esperienza di dolore che nascono le poesie di Xenia, una delle ultime raccolte montaliane. Solo a questo punto quell’amore quotidiano, volutamente schivato finora, prende il sopravvento, riscattando dallo scorrere del tempo il valore di un’esperienza umana a tutto tondo. Non ci sono guerre da combattere, ma imprevisti, scadenze – proprio come nella vita di noi tutti.
Verrebbe da chiedersi, pertanto, se con Xenia non si stia per caso realizzando la rivincita di quell’amore che è durato nel tempo, a dispetto delle sue debolezze. Se è vero, infatti, che il mondo non potrebbe essere salvato senza la presenza di Clizia, tuttavia solo a una donna come Mosca potevano essere dedicati alcuni tra i versi più intimi e umani della produzione di quel grande poeta che fu Montale: Avevamo studiato per l'aldilà /un fischio, un segno di riconoscimento. / Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo.

lunedì 16 dicembre 2019

I libri più belli del mio 2019

Siamo ormai alle soglie dell'anno nuovo ed è arrivato quel fatidico momento in cui tutti corrono a fare bilanci.
Cosa racconteremo di questo 2019? (semicit.)
Io vi racconto, in breve, alcuni dei libri che mi hanno accompagnata tra un esame e l'altro - nei momenti di respiro. Li ho disposti secondo l'ordine in cui li ho letti, così che possiate rivivere insieme a me quest'anno di racconti.

1. La vita comincia ogni giorno, Rilke
Vi ho già parlato del mio amore per questo poeta in un articolo passato. Rilke è come una specie di porto sicuro ogni qualvolta mi sembra di perdere la bussola. Di lui amo l'autenticità, la compassione (nel senso più originale del termine), la capacità di scavare a fondo nell'animo umano e gettare le basi per uno sviluppo interiore. Queste lettere sono tutto questo e qualcosa di più. Quando il respiro veniva meno, hanno saputo ricordarmi che bisogna avere pazienza verso se stessi, soprattutto quando tutto sembra un inestricabile groviglio. 

«Le nostre gioie, la nostra felicità, i nostri sogni devono esistere nel pieno delle difficoltà; vedendoli stagliarsi lì, contro quello sfondo d'abisso, assistiamo per la prima volta al pieno fulgore della loro bellezza.»


2. Ossi di seppia, Montale 
Ho letto per la prima volta Montale due anni fa. E' una storia curiosa, perciò voglio raccontarvela. Tutto parte dal fatto che ho una vera e propria passione verso i libri usati: credo che riescano a raccontare molto di più di un libro che contiene solo la storia che vi ha scritto l'autore. E' per questo che frequento spesso i mercatini. A Pisa ce n'è uno, in particolare, in cui riesco a trovare sempre delle perle. Generalmente apro a caso quello che mi trovo davanti, leggo qua e là, mi lascio trasportare. Così è avvenuto il mio primo incontro con Montale: sono rimasta folgorata da qualche pagina de La bufera e altro e non ho potuto fare a meno di portarlo con me a casa. L'ho letto voracemente, notte dopo notte, senza capirci niente. C'era qualcosa in quelle parole, però, che riusciva a trascendere la mia facoltà di comprensione: una musica, un ritmo, un respiro umano. Ed è così che un giorno mi sono decisa a leggere Ossi di seppia. E' stato amore. Di Montale amo profondamente la schiettezza: il suo occhio non fa sconti, indaga la realtà così com'è. Montale non ha paura di gridare al mondo che il dolore invade ogni cosa, che non esistono messaggi universali da raccontare, che sembra non esserci scampo dalle catene in cui siamo intrappolati. Eppure nelle sue parole permane, sempre, uno sforzo: è quello che scorgiamo in Arsenio, che lo spinge a tentare il varco, la via della salvezza. E non importa che poi alla fine si ritorna alle stesse ore di sempre - non importa che tutto sembra essere stato inutile. L'importante è aver cercato. E, soprattutto, averlo raccontato. 

3. Le piccole virtù, (Natalia) Ginzburg
Anche la Ginzburg è una scoperta che risale all'anno scorso. Solo quest'anno mi sono imbattuta, però, in questi piccoli spunti editi da Einaudi. Si tratta di articoli, riflessioni, racconti autobiografici. Tra tutti, impossibile non citare il bellissimo Ritratto di un amico: uno dei racconti più struggenti che sia mai stato fatto di quell'Uomo profondamente vero che fu Cesare Pavese. 
La Ginzburg con questo libro mi ha raccontato cosa significhi essere umani. Insieme abbiamo attraversato la guerra, l'amore, la passione per letteratura. Ho scoperto la sua capacità d'indagine, la sua acutezza di pensiero. Mi sono lasciata guidare dalla sua saggezza. 
E' così che ho capito quanto potente possa essere la penna di una scrittrice, se sa raccontarci nei nostri dettagli più intimi. 

«Come succede fra chi si vuol bene ed è stato colpito da una disgrazia, cercavamo ora di volerci più bene e di accudirci e proteggerci l'uno con l'altro; per- ché sentivamo che lui, in qualche sua maniera misteriosa, ci aveva sempre accuditi e protetti. Era più che mai presente, su quella proda della collina.»



4. Franny e Zooey, Salinger
Lasciatemi dire che non credo di aver capito questa storia. Ma forse è proprio così che nascono gli amori più forti: dal mistero, dall'incertezza, dalla voglia di approfondire. 
Franny e Zooey è una storia di sofferenza intima, di instabilità. Al di là delle parole di Salinger si scorge un groviglio psicologico che forse non può essere risolto. Noi lo sappiamo sin dall'inizio, eppure non possiamo fare a meno che rimanervi incastrati, sperare fino alla fine. Forse perché leggiamo - nelle loro debolezze - anche le nostre.

«Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici.» 



5. Revolutionary Road, Yates
Con Yates non ho mai avuto molto feeling. La lettura di Easter Parade mi aveva lasciata piuttosto indifferente. Così non è stato con Revolutionary Road. Mi è sembrato, a tratti, di leggere le parole di Fitzgerald quando ci svela che tutto ciò che sembra luccicare e brillare non è altro che un'impalcatura. Ecco: questo romanzo racconta qualcosa di molto simile. E' la storia di un matrimonio, delle sue contraddizioni, dell'America borghese e dei suoi schermi. Ma al di là di tutto questo c'è qualcosa di vivo e pulsante che non possiamo ignorare: un dolore che preme per scatenarsi, una tragedia incombente. Revolutionary Road è una storia che mi ha avvolta, trascinata, distrutta. Impossibile da dimenticare.




6. Odissea
Avete presente quella sensazione di ansia e eccitazione che si prova quando si intraprende un viaggio? Ecco: è quella che ho provato quando ho iniziato a leggere queste pagine. L'Odissea, del resto, è proprio il racconto di un viaggio, forse il più tragico e struggente mai scritto. E' stato bello conoscere Odisseo e la sua astuzia; bello sentire il richiamo delle sirene; agghiacciante il momento in cui Cariddi e Scilla potevano distruggerlo; commovente il ritorno. E' tutto quello che abbiamo bisogno di leggere e sapere sull'essere umano. 
Alla fine del viaggio anche io ero cresciuta.

«Avvicinati dunque, glorioso Odisseo, grande vanto dei Danai, ferma la nave, ascolta la nostra voce. Nessuno è mai passato di qui con la sua nave senza ascoltare il nostro canto dolcissimo: ed è poi ritornato più lieto e più saggio.» 


7. Alta fedeltà, Hornby
Credo che uno degli ingredienti per riuscire ad attraversare indenne la propria vita sia l'ironia. Forse è per questo che ho amato la storia di Rob. Non posso che considerare geniale uno che inizia una specie di lettera alla ragazza che gli ha appena spezzato il cuore citando tutte le ragazze che lo hanno fatto prima di lei per dimostrarle che non sarà certo la delusione più grande. 
Eppure in Alta fedeltà c'è molto di più. Una passione, innanzitutto: quella per la musica, che ci guida pagina dopo pagina in un itinerario interiore che sembra ricordarci che ci sono delle canzoni «da cantare a squarciagola / come se cinquemila voci diventassero una sola / canzoni che ti amo ancora, anche se è triste, anche se è dura / canzoni contro la paura» (Brunori Sas).
C'è quella precarietà che ogni ragazzo che vive gli anni duemila non può fare a meno di sperimentare; quella dipendenza dagli altri da cui nessuno è esente; le paranoie; il piangersi addosso. La storia di Rob potrebbe essere la nostra, strada facendo un po' lo diventa.
Non sono riuscita a non volergli bene.



8. L'unica storia, Barnes
Questo libro parte da un'idea: ognuno di noi ha un'unica storia da raccontare. Non importa, come vi raccontavo su Instagram, se essa sia brillante, originale o malferma. Ognuno di noi ne ha una e tutto si riduce, inevitabilmente, a quello. E' qualcosa da cui non possiamo fuggire: qualcosa che ci accompagna durante il corso della nostra vita. Ho scoperto che non c'è niente di più vero. 
Barnes ci ha raccontato quella di Paul - e del suo amore disgraziato; io, leggendo ho rivissuto la mia.

«Ciascuno ha la propria storia d'amore. Anche se è stata un fallimento, anche se si è ormai spenta, o non è mai riuscita a partire, o se fin dal principio era tutta e solo mentale, questo non la rende meno vera. E' l'unica storia.»


9. Lontano dagli occhi, Di Paolo
Siccome di questo libro vi ho parlato già abbondantemente (anzi, è stato il motivo per cui ho ripreso a scrivere dopo due anni di latitanza) ho deciso di raccontarvi tutto quello che non avrei potuto scrivere in una recensione vera. 
Quando è arrivato Lontano degli occhi a casa è stata una festa: erano mesi che sentivo il bisogno della scrittura di Paolo. Avevo così tanta voglia di leggerlo che l'ho portato con me in qualsiasi momento: perfino mentre camminavo per le strade di Pisa. Le parole scorrevano via, io mi sentivo di nuovo a casa. Poi, lo stesso giorno in cui l'ho iniziato, ormai arrivata alle ultime pagine (ore 23.30), è successo qualcosa. E' come se tutto, improvvisamente, avesse acquisito un senso.  Non posso spiegarvi molto, non voglio rovinarvi la lettura. Vi basti sapere che non ho mai provato niente di simile nei miei 21 anni, mai credo lo riproverò. E' stato come uno spartiacque. Il giorno dopo sapevo che qualcosa era irrimediabilmente cambiato - ed era qualcosa che mi aveva fatto del bene. 

Leggere Lontano dagli occhi è stato come vivere una catarsi, ritornare alle origini, re-imparare ad essere grata. E questo, amici lettori, è forse la cosa più importante che mi porterò dietro da questo 2019. Perché leggere può essere un'avventura pazzesca, può essere un rifugio o ancora un arricchimento. Ma c'è qualcosa che va ancora oltre: quel momento in cui la vita e la scrittura coincidono, ci svelano il miracolo dell'essere al mondo. E' questo che mi ha raccontato Lontano dagli occhi. E' questo che cerco nei libri. 

Aspetto di leggere le vostre avventure!
Un abbraccio forte,
Rebecca 


lunedì 21 ottobre 2019

Lontano dagli occhi - La parola come catarsi

«...una forma di vita che ci è sconosciuta: "vita strana", come qualcuno la chiama, o "vita 2".»
Paul Davies, Alieni

Cecilia, Luciana, Valentina: tre storie, tre gravidanze inaspettate, tre destini che in un qualche modo sembreranno sfiorarsi. E’ questo il punto di partenza di Lontano dagli occhi, l’ultimo romanzo di Paolo di Paolo. Una storia che ci racconta che « niente ci accomuna come l’essere figli» e che indaga le paure e le ansie di tre uomini e tre donne che si ritrovano improvvisamente davanti ad una sfida che ci coglie sempre - in quanto esseri umani - impreparati. Paolo di Paolo li insegue mentre traballano sul fragile filo delle proprie esistenze, cerca di indovinarne i pensieri, le domande. Ci ritroviamo, insieme a loro, ad attraversare le strade di Roma, negli anni ’80, in una sera in cui tutto sembra possibile; seguiamo le fila di amori che avrebbero potuto funzionare - se solo non fosse andata così, quella notte, se fossi ancora la ragazza di prima. Li accompagniamo in sala parto, li vediamo - impauriti - chiedersi se andrà tutto bene, se saranno all’altezza. E nel raccontare queste storie è come se lo scrittore ricostruisse in un qualche modo anche la propria, come se riempisse una parentesi che ogni giorno gli chiede il conto. Paolo di Paolo dà voce alle proprie domande, cerca delle risposte, rincorre un filo di cui intuisce solo la direzione. Partorisce, quasi, il senso di un’assenza primigenia - la consegna ai lettori. Per rivelarci, in queste pagine, che niente è più spaventoso e miracoloso di una vita che comincia e che comunque sarà, indipendentemente da tutto.


Lontano dagli occhi è un racconto sussurrato, intimo, una confessione catartica. E’ l’indagine di un vuoto e il suo riempimento, è la forza della parola che purga, che indovina destini possibili e irrealizzati. E forse non c’è niente di più straordinario di questo pulsare autentico e vitale che sentiamo dietro ogni parola; niente di più coraggioso di chi affida alla letteratura la propria vita - in un groviglio ormai diventato inestricabile. Leggendo queste righe ci si rivela - potente più che mai - l’abilità della Letteratura: quel ritrovarsi, Umani fino al midollo, nelle pieghe di una storia che non è la nostra ma potrebbe esserlo; quell’intuire, anche solo appena, un dolore, un grido taciuto, una gioia sottile.

Paolo di Paolo ci insegna che nella vita ci sono cose che non capiamo, che ci sfuggono - cose di cui continueremo a cercare il senso forse all’infinito; ma che, in fondo, siamo quello che siamo anche per i nostri irrisolti, per le casualità che hanno determinato il nostro destino, per quel groviglio di insicurezze che nascondiamo in fondo al cuore. E che la storia, la nostra storia - l’unica storia - è una trama complessa costruita da chi ci ha amato e chi amiamo, da chi ci ha scelti sin dal primo istante. Possiamo provare a seguire altre piste, rincorrere un “e se invece”, qualcosa che ci porti lontano - ma alla fine abbiamo avuto solo e soltanto un futuro, uno tra tutti. 

C’è un passo, in questo libro, che recita: «E in fondo, forse, è così: ci si capisce, tutti sappiamo qual è il punto. Vanno però trovate la parole per spiegare, e si vive come se fosse possibile trovarle davvero»
Ecco, Paolo di Paolo queste parole le ha trovate. E ha saputo raccontarci cosa significa essere figli, cosa significa essere umani - che è, poi, la cosa che ci accomuna tutti. 

lunedì 8 maggio 2017

Arte come intuizione lirica

Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione, ecco l’arte.
(Benedetto Croce)

Benedetto Croce
Definire il concetto di Arte è pressoché impossibile dato il suo carattere soggettivo e non oggettivo. Benedetto Croce, uno dei filosofi più in vista del ‘900,  ne diede però una definizione abbastanza completa: «l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia». Per comprendere meglio questa affermazione, bisogna risalire alla classificazione che Croce aveva fatto dello Spirito. Esso si divide in due forme fondamentali: teorica e pratica. È alla prima che l’Arte appartiene, insieme alla filosofia stessa, e si definisce come ‘intuizione individuale’ che fa riferimento alle singole entità. Partire da intuizione era necessario per mettere in chiaro, fin dall’inizio, che non vi era niente in comune con la definizione di bellezza oggettiva che Kant aveva dato – per cui il bello è ciò che procura piacere, un piacere necessario e riconosciuto dalle masse. L’Arte per Croce ha una connotazione tutta intima e inspiegabile (cioè a-logica): percezione. Non può esistere bellezza, quindi, al di fuori dell’individuo che la avverte, della fantasia che lo crea. Non si può, insomma, considerare l’Arte prescindendo da chi l’ha pensata e da chi la sta ricevendo: «la fantasia dell’innamorato crea la donna a lui bella e la impersona in Laura; la fantasia del pellegrino il paesaggio incantevole o sublime e lo impersona nella scena di un lago o di una montagna». Oltre a ciò, la materia artistica, essendo parte di quella forma teoretica dello Spirito, non è soggetta all’utile o alla morale. Non è quindi da considerarsi subordinata a ciò che viene ritenuto dalla società ripugnante, né deve avere uno scopo se non quello di ubbidire a quel dovere morale dell’arte che ha come fine l’arte stessa, ossia la bellezza. Una bellezza che deriva dalla contemplazione, riflessiva e costante, dei sentimenti, delle passioni, di tutto ciò che agita il cuore dell’uomo. Tutto ciò, però, depurato dalla tumultuosità che deriva dall’immediatezza della sensazione. Scriveva Svevo che era attraverso la scrittura che meglio comprendeva lui stesso. È proprio per questo motivo che la forma – che può essere l’immagine, la scrittura, il suono – in cui viene rinchiuso quel sentimento che sta generando Arte diventa un processo di catarsi; un modo quindi di distanziare ciò che si prova per guardarlo attraverso una lente d’ingrandimento. Arte è, quindi, tutto ciò che suscita emozione nell’animo umano; tutto ciò che provoca turbamento, che esplode nell’aria come un richiamo atavico, risalente dalle viscere stesse del proprio corpo. E la bellezza, quella vera, provoca un piacere disinteressato, un piacere in grado di liberare dal dolore e restituire la libertà. Era questo, del resto, che affermava Schopenhauer, ammettendo che l’Arte è una delle vie di liberazione da quelle dinamiche che cercano di appropriarsi della nostra esistenza privandoci della facoltà d’azione. E la cosa più stupefacente, quella che sembra quasi paradossale per quanto è vera, è che nonostante l’Arte sia intuizione individuale, nasconde sempre un qualcosa di universale. È per questo che ne siamo attratti: perché racconta, sempre, di noi. «In essa [nell’arte], il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo; ed ogni schietta rappresentazione artistica è se stessa e l’universo. In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori, le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioendo». (Benedetto Croce)


sabato 22 aprile 2017

Sic itur ad astra, l’anelito alla vita


Ho cercata la pace di me stesso accordando il mio cuore col ritmo cieco delle cose mute. Mi son dissolto nella forza vergine del vento e delle cime, ma dopo il rapido oblio mi son sentita l’anima ululare e dibattersi ancora, raffica ansiosa e anelante in eterno.
(Cesare Pavese)


Secondo Schopenhauer, la brama di vivere è quel moto incessante che sta alla base di ogni azione umana. È la volontà - l’anelito - al realizzarsi, al giungere a un compimento, a sentire qualcosa di pulsante, di vero. Scrive Roberto Vecchioni nelle sue Storie di felicità: la felicità la voglio addosso come una febbre. Ed è proprio in questa febbre, in questo stato di contrita tensione, che Cesare Pavese immerge le sue poesie. Scritte negli anni in cui la guerra aveva lasciato il posto ad un’attesa che aveva il sapore di sospensione, le liriche raccolte nelle opere precedenti a Lavorare Stanca sono tra le più belle di tutta la letteratura italiana. Morte, sangue, fatica, dolore, silenzio, amore si fanno strada tra le viscere del poeta per raccontarci di un’angoscia soffocata e di uno strazio dilaniante. Ci sono anime al mondo che sentono il peso dell’esistenza in maniera più intensa rispetto ad altre: per esse, anche un lieve cambiamento ha l’irruenza di uno sparo. Sono quelle che vedono più in profondità, fino alle radici, e non si arrendono davanti agli ostacoli che incontrano nel cammino. L’esistenza di Pavese – e la sua ricerca poetica – furono percorse da un istinto ancestrale, una ricerca appassionata: il midollo della vita. Fu in quel disperato tentativo ad innalzarsi che si delineano i versi più cupi, stanchi e intimi della sua produzione. Pavese ci racconta del desiderio di consolazione, di compagnia; della brama di un amore che sia abbastanza, di una fragilità di cui prendersi cura, di una vita che potesse andare oltre la superficie e scavare a fondo senza paura. E la rincorreva, quella vita, con tutte le sue forze, incespicando, affannandosi, incalzando la penna a scrivere e scrivere le fatiche e il disagio della lotta. Confessa in Al lento vacillare stanco: “Vita vita tremenda / che mi agitavi in un dolore ardente / e mi sconvolgevi nel cuore / ogni goccia di sangue, / in una pienezza indicibile, / che mi mutava il colore la voce e fin gli ultimi gesti / ad ogni apparire leggero / dei suoi occhi profondi, / scuri cupi, / perduti / nel viso pallido triste / sotto la lieve nuvola bionda, / fragile come il suo corpo, / dei tenui capelli evanescenti: / vita vita di sogno / perché ti sei spenta / così nel mio cuore?”. Circondato da uomini indifferenti, perfettamente a loro agio con un mondo che li masticava e sputava dopo averne preso l’essenza, scontò fino alla fine la condanna di una solitudine che assomigliava ad un trinceramento, ad un esilio volontario. Riecheggiano i versi di Ungaretti: “lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata” (Natale, Ungaretti). La letteratura costituì la sua unica scappatoia: l’ennesima via per esplorare l’angoscia e cercare una via d’uscita, un lume verde, una feritoia illuminata. Forse è per questo che non si riesce a scorgere viltà nel suo gesto finale – quello di suicidarsi; piuttosto una disperazione strozzata; l’epilogo di un percorso che non sembrava avere altra fine. Perdono tutti e chiedo a tutti perdono: non poteva più fingere, non riusciva a sopportare più di vivere in un modo che non era vita, “di costringersi con uno sforzo che sente inutile, a un assestamento diverso che tanto sente inutile e non suo” (Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi, Pavese). Dimenticava, però, che è proprio così che si giunge alla vita. È in questo che si scorge il suo senso ultimo: nel proseguire, anche senza forze, la propria battaglia; nel rimanere fedeli fino alla fine al proprio iniziale anelito alla vita. Sic itur ad astra: così si giunge alle stelle, diceva Apollo al figlio di Enea. Nonostante le asperità, le selve in cui ci troviamo a volte rinchiusi, c’è ancora una possibilità, la più bella promessa di vittoria: “e quindi uscimmo a riveder le stelle” (Dante, Inferno).