«L’augurio che possiate trovare assai pazienza in voi da sopportare e
assai semplicità da credere; che possiate acquistare sempre più fiducia in
quello ch’è difficile e nella vostra solitudine tra gli altri. E per il resto
lasciatevi accadere la vita».
(Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke)
Il
periodo della crescita e dell’adolescenza è il momento dei grandi
interrogativi; delle ore trascorse davanti alle pagine vuote aspettando quel
qualcosa che possa dare un senso ad una vita tutta ancora da scrivere; di quel
costante bisogno di capire che forma darsi e dare al proprio futuro. Si cerca
di prendere le misure di quell’abito che pian piano ti viene calato addosso –
la maturità – ma che effettivamente ancora non calza proprio a pennello. A
sedici, diciotto anni, si è forse troppo piccoli per decidere da soli, ma anche
troppo orgogliosi per chiedere a qualcuno di grande come fare ad inventarsi un
destino. Se però questo altro è
l’uomo per cui si nutre grande stima - lo stesso che ti ha sorpreso così tante
volte con le sue parole, scoprendo quei lati che pensavi di aver nascosto al
resto della gente - allora può nascere quel rapporto, quasi paterno, capace di
guidarti in un percorso che, se affrontato da soli, sarebbe buio e pieno di
ostacoli: l’essere adulti. È quello che succede tra Rainer Maria Rilke, uno dei
più affermati scrittori del tempo, e Franz Xaver Kappus, un giovane aspirante
poeta. La loro conoscenza inizia con una lettera, spaurita come solo chi è giovane
può scriverne, che esprime uno dei dubbi più paralizzanti in cui ci si imbatte
nella crescita: come si fa a capire se il
mio destino è quello di essere scrittore? La risposta arriva dopo un po’, e
tradisce forse le aspettative così speranzose del ragazzo. Ma, dopo anni e anni
da quando quella corrispondenza si interruppe, queste parole continuano a
rivelarsi nella loro spiazzante saggezza. Scrive Rilke: «Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via.
Penetrate in voi stesso. […] Scavate dentro voi stesso per una profonda
risposta» (Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke). Perché il
nocciolo della questione, alla fine, è tutto lì: nel sapersi indagare, mettere
alla prova, interrogarsi. Sconfiggere il timore dello scontro per scoprirsi, e
scoprirsi inaspettatamente diversi. Inizia così un viaggio nella solitudine,
con cui Rilke sicuramente aveva imparato a convivere, che invece di ammantarsi
di oscurità diventa improvvisamente illuminazione e strumento di conoscenza. È
proprio in quel ripiegarsi in se stessi che infatti nasce e cresce quel
processo di ricerca e riflessione che ci avvicina alla radice più profonda di
noi. «Voi siete così giovine, così al di
qua di ogni inizio, e io vi vorrei pregare quanto posso, caro signore, di aver
pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentare di aver
care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto
straniera. Non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le
potreste vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande»
(Ibidem). Una prospettiva, questa, di certo poco incoraggiante. Spinge ad
un incontro, quello con se stessi, più volte rimandato per paura di non esserne
all’altezza; per il terrore di trovare mostri pronti a divorare; di sprofondare
in baratri senza fine. Ma è nell’abitare il dubbio, nell’imparare a guardarne
il volto, nell’interrogarlo coraggiosamente – che si impara la difficile arte
del vivere e del crescere. E, come continua Rilke, «che alcuna cosa sia difficile dev’essere una ragione di più per
attuarla». Il percorso della crescita è qualcosa in continuo divenire,
qualcosa che non termina quando si raggiunge l’età adulta o quando si
affrontano esperienze particolarmente gravi: esso prosegue, silenziosamente,
tenacemente, fino alla fine dei nostri anni. È per questo che è necessario
essere sicuri di chi si è – o meglio, di chi si sta diventando – ed è
necessario che ci si dia la fiducia e lo spazio per osservarsi accadere, nel
tempo, senza avere il costante bisogno di definire la propria posizione nei
confronti degli altri. Identificarsi in
qualcosa è imporsi dei limiti; identificarsi per qualcuno è ancor di più un insensato imprigionarsi. «Non vi osservate troppo. Non ricavate
conclusioni troppo rapide da quello che vi accade; lasciate semplicemente che
vi accada» (Ibidem). E ancora, non impedire, soprattutto, che occasioni di
crescita come il dolore o la tristezza abbiano un lato marginale. Secondo
Rilke, è giusto e saggio accettare qualsiasi cosa la vita – o chi per lei – ci
ponga davanti, ed affrontarle pazientemente: come un malato, ancora
convalescente, e allo stesso tempo il
proprio dottore, capace di medicare. Ricordando, infine, che nel nostro
percorso non siamo soli, ma abbiamo rifugi – radici – a cui poter tornare. La
famiglia, «un amore che vi viene serbato
come un’eredità […] in questo amore c’è una forza e una benedizione, da cui voi
non avete bisogno di uscire, per andarvene molto lontano» (Ibidem). E, ancora, chi abbiamo deciso
ci accompagnerà, con amore, fino alla fine dei nostri giorni. Così come diceva
Kafka alla sua Milena: «e forse non è
vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei
per me il coltello col quale frugo dentro me stesso» (Lettere a Milena, Praga,
14 settembre 1920). Un amore, quindi, che diventa l’ennesima occasione per
conoscersi, rivelarsi, scoprire il velo dalle cose più oscure della propria
esistenza; e ancora, condividere una solitudine, arrivando a possedersi grazie
al possesso dell’altro. «Amare è
un’augusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche
cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro, è una grande
immodesta istanza che gli vien posta, qualcosa che lo elegge e lo chiama a
un’ampia distesa. […] L’amore che in questo consiste, che due solitudini si
custodiscano, delimitino e salutino a vicenda» (Lettere a un giovane poeta,
Rainer Maria Rilke).
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