domenica 16 aprile 2017

Abitare il dubbio, vivere le domande

«L’augurio che possiate trovare assai pazienza in voi da sopportare e assai semplicità da credere; che possiate acquistare sempre più fiducia in quello ch’è difficile e nella vostra solitudine tra gli altri. E per il resto lasciatevi accadere la vita».
(Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke)



Il periodo della crescita e dell’adolescenza è il momento dei grandi interrogativi; delle ore trascorse davanti alle pagine vuote aspettando quel qualcosa che possa dare un senso ad una vita tutta ancora da scrivere; di quel costante bisogno di capire che forma darsi e dare al proprio futuro. Si cerca di prendere le misure di quell’abito che pian piano ti viene calato addosso – la maturità – ma che effettivamente ancora non calza proprio a pennello. A sedici, diciotto anni, si è forse troppo piccoli per decidere da soli, ma anche troppo orgogliosi per chiedere a qualcuno di grande come fare ad inventarsi un destino. Se però questo altro è l’uomo per cui si nutre grande stima - lo stesso che ti ha sorpreso così tante volte con le sue parole, scoprendo quei lati che pensavi di aver nascosto al resto della gente - allora può nascere quel rapporto, quasi paterno, capace di guidarti in un percorso che, se affrontato da soli, sarebbe buio e pieno di ostacoli: l’essere adulti. È quello che succede tra Rainer Maria Rilke, uno dei più affermati scrittori del tempo, e Franz Xaver Kappus, un giovane aspirante poeta. La loro conoscenza inizia con una lettera, spaurita come solo chi è giovane può scriverne, che esprime uno dei dubbi più paralizzanti in cui ci si imbatte nella crescita: come si fa a capire se il mio destino è quello di essere scrittore? La risposta arriva dopo un po’, e tradisce forse le aspettative così speranzose del ragazzo. Ma, dopo anni e anni da quando quella corrispondenza si interruppe, queste parole continuano a rivelarsi nella loro spiazzante saggezza. Scrive Rilke: «Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrate in voi stesso. […] Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta» (Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke). Perché il nocciolo della questione, alla fine, è tutto lì: nel sapersi indagare, mettere alla prova, interrogarsi. Sconfiggere il timore dello scontro per scoprirsi, e scoprirsi inaspettatamente diversi. Inizia così un viaggio nella solitudine, con cui Rilke sicuramente aveva imparato a convivere, che invece di ammantarsi di oscurità diventa improvvisamente illuminazione e strumento di conoscenza. È proprio in quel ripiegarsi in se stessi che infatti nasce e cresce quel processo di ricerca e riflessione che ci avvicina alla radice più profonda di noi. «Voi siete così giovine, così al di qua di ogni inizio, e io vi vorrei pregare quanto posso, caro signore, di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentare di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande» (Ibidem). Una prospettiva, questa, di certo poco incoraggiante. Spinge ad un incontro, quello con se stessi, più volte rimandato per paura di non esserne all’altezza; per il terrore di trovare mostri pronti a divorare; di sprofondare in baratri senza fine. Ma è nell’abitare il dubbio, nell’imparare a guardarne il volto, nell’interrogarlo coraggiosamente – che si impara la difficile arte del vivere e del crescere. E, come continua Rilke, «che alcuna cosa sia difficile dev’essere una ragione di più per attuarla». Il percorso della crescita è qualcosa in continuo divenire, qualcosa che non termina quando si raggiunge l’età adulta o quando si affrontano esperienze particolarmente gravi: esso prosegue, silenziosamente, tenacemente, fino alla fine dei nostri anni. È per questo che è necessario essere sicuri di chi si è – o meglio, di chi si sta diventando – ed è necessario che ci si dia la fiducia e lo spazio per osservarsi accadere, nel tempo, senza avere il costante bisogno di definire la propria posizione nei confronti degli altri. Identificarsi in qualcosa è imporsi dei limiti; identificarsi per qualcuno è ancor di più un insensato imprigionarsi. «Non vi osservate troppo. Non ricavate conclusioni troppo rapide da quello che vi accade; lasciate semplicemente che vi accada» (Ibidem). E ancora, non impedire, soprattutto, che occasioni di crescita come il dolore o la tristezza abbiano un lato marginale. Secondo Rilke, è giusto e saggio accettare qualsiasi cosa la vita – o chi per lei – ci ponga davanti, ed affrontarle pazientemente: come un malato, ancora convalescente, e  allo stesso tempo il proprio dottore, capace di medicare. Ricordando, infine, che nel nostro percorso non siamo soli, ma abbiamo rifugi – radici – a cui poter tornare. La famiglia, «un amore che vi viene serbato come un’eredità […] in questo amore c’è una forza e una benedizione, da cui voi non avete bisogno di uscire, per andarvene molto lontano» (Ibidem). E, ancora, chi abbiamo deciso ci accompagnerà, con amore, fino alla fine dei nostri giorni. Così come diceva Kafka alla sua Milena: «e forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso» (Lettere a Milena, Praga, 14 settembre 1920). Un amore, quindi, che diventa l’ennesima occasione per conoscersi, rivelarsi, scoprire il velo dalle cose più oscure della propria esistenza; e ancora, condividere una solitudine, arrivando a possedersi grazie al possesso dell’altro. «Amare è un’augusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro, è una grande immodesta istanza che gli vien posta, qualcosa che lo elegge e lo chiama a un’ampia distesa. […] L’amore che in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda» (Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke).

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