Quanto labili sono i confini tra l'amore e il possesso? Quanto tra l'ambizione e la morbosità, il successo e il fallimento? Quando un sogno diventa un'ossessione? E' in questa indagine misteriosa che sono nati romanzi come Sylvia e Belli e dannati - nelle contraddizioni dell'esistenza, negli spazi soffocanti, quasi inesistenti, tra le cose.
E' un atto di estrema audacia raccontarsi, togliersi la maschera e mostrare cosa c'è sotto l'apparenza limpida e bella delle cose. Ma è anche necessario, se si vuole purgare il proprio animo dalla colpa.
Nasciamo immersi nel male, nel dolore, nel peccato; ci portiamo dietro le nostre mancanze e quelle degli altri fin dall'origine come fossimo marchiati, soggiogati. E tentiamo per tutta la vita, disperatamente, di lavarci di dosso le sozzure che hanno infangato il nostro spirito - in uno strofinio senza sosta.
Forse non c'è redenzione, sembra gridare il mondo. Ma Schopenhauer aveva individuato un modo per alleggerirsi della propria tristezza: fare arte.

In un climax crescente che culmina nel suicidio truce di Sylvia, Michaels ci racconta il rapido affondare dell'umanità, l'oscuro baratro in cui l'amore può trascinare. Le frasi taglienti, secche, crude, diventano quasi l'immagine concreta di un bisturi che, con precisione clinica, traccia il profilo di un morbo che non si cura con le medicine: la schizofrenia, l'ossessione. E' così che il loro amore diventa distruzione, decadenza. E la fossa in cui è caduto sembra non avere mai fine.
Ma probabilmente è proprio alla base l'errore: non possiamo aspettarci dall'amore che guarisca ferite troppo profonde. Siamo destinati, fin dal principio, a vivere ognuno incastonati nella propria solitudine. Non ci sono parole per spiegare il proprio dolore, non ci può essere conciliazione tra due anime diverse.
La nostra è un'immensa e infinita emarginazione: dal mondo, dalla vita.
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