“Era questa, evidentemente, la sostanza della
vita: un trionfo confuso che li accecava tutti, sirena nomade che li faceva
accontentare di uno stipendio magro e dell’improbabilità aritmetica di un
successo finale.”
Belli e dannati, Fitzgerald
Desideriamo tutti sapere che nella vita potremo farcela. Che c’è una
possibilità, una speranza anche per noi,
non importa chi
siamo o da
dove veniamo. È
il sogno americano, quello che ha
affascinato generazioni e
generazioni durante i
ruggenti anni ’20:
uomini e donne che hanno iniziato a rivendicare la
propria identità e
a farsi strada nel mondo. È
una caratteristica dell’uomo, del resto, questa mancanza, questo vuoto insondabile da riempire. Nasciamo con la
spinta a realizzarci, a cercare qualcosa in più, a
desiderare. E desiderio, che letteralmente significa ‘mancanza di stelle’, sembra quasi ricordarci quanto in noi
sia radicata la
voglia di guardare verso il cielo e sentirci improvvisamente elevati fino a
toccare l’infinito. Quelle stelle, ci abbagliano. A volte, ci
accecano. I protagonisti dei romanzi di
Fitzgerald sono forse i personaggi letterari che più ce
lo raccontano meglio. Calati nelle atmosfere sfavillanti e ricche dell’America degli anni ’20, non
riescono mai a
sentirsi realizzati. La
loro è una
continua, ostinata, disperata tensione verso una luce verde, un
sogno, un obiettivo. Sono così innamorati delle loro idee
da struggersi per
afferrarle, a volte distruggendosi. Soggiogati, si
lasciano annebbiare dall’alcool, dalle feste sfrenate che il proibizionismo
dell’epoca cercava di combattere, dall’illusione – o speranza, come la si vuol
chiamare. Ma il loro desiderio è destinato ad esaurirsi in
se stesso, afflosciandosi, umiliando chi lo
ha intensamente provato. Ed è quasi paradossale, assurdo, notare quanto esso si sia ormai
impadronito totalmente di loro, tanto da diventarne vittime. Neanche sull’orlo
della morte, del declino, riusciranno a rinnegare ciò che li sta uccidendo. Fitzgerald stesso era un fallito. Un misero, disgraziato fallito. Un uomo
che aveva cercato con tutte le
sue forze di
raggiungere il suo
sogno, di riscattarsi da una vita
che lo vedeva perennemente insoddisfatto, da un amore che si era
rivelato illusione. E neanche lui, come i suoi personaggi – le sue copie – riuscirà mai a
realizzare il suo desiderio. Più vi si
protendeva, più cadeva in basso. Ed
è per questo che i suoi
romanzi sono così
rivelatori, spiazzanti, veri.
Ci raccontano per
quello che veramente siamo: esseri che
– accecati –
cercano di raggiungere la propria meta, senza riuscirci. Sprofondando così, inevitabilmente, dentro noi
stessi. Non sembra esserci redenzione a questo.
Fitzgerald non vedrà mai il successo, durante la sua vita. Il suo sarà un
fallimento che si porterà nella tomba. L’unica consolazione che gli resta, a
distanza di quasi un secolo, è sapere che nonostante tutto, c’è qualcuno che
continua a leggerlo, emozionandosi, vivendo con lui quell’inevitabile
fallimento a cui tutti, fatalmente, siamo chiamati.
“E mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l'aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa - domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia... e una bella mattina... Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”.
(Il
grande Gatsby, Fitzgerald)
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